19.1.12

Mi fa paura. Non ho conosciuto quei tempi, per fortuna. Ma già la sola parola, forconi, richiama alla mia memoria altre parole - soltanto studiate sui libri - come 'autarchia', o immagini - foto su quei libri, in bianco e nero - di covoni di spighe e dei nerboruti contadini arsi dal sole che li ostentano; o di lui, il duce agricoltore, che si fa ritrarre in mezzo alla bionda campagna, con la falce, a sudare e faticare: lui, uomo tra gli uomini, lavoratore tra i lavoratori.
Non mi piace la retorica che si sfodera e si srotola e si imbandisce sulle piazze, agli imbocchi autostradali e portuali. Laddove padri di famiglia si riversano a protestare e far casino, perché ci credono in questa lotta; loro sì, loro sono pronti a salire sui vani delle loro lambrette e a proclamare - con la passione che solo un meridionale può forse performare - un'accorata, reale denuncia di una vita fattasi economicamente insostenibile per sé e, soprattutto, per i propri figli.

Ma io non ci credo e mi fa paura. Mi fa paura qualsivoglia movimento d'urto o movimento dei forconi. Mi fa paura perché è, dicevo, una retorica già usata e, forse, una retorica che sempre sarà usata da chi - come si legge in quei (pochi) giornali che ne parlano - soffia, meschino, sui tizzoni infuocati già da decenni su decenni di malgoverno e issa una bandiera: la propria, quella della fiamma - guarda un po' - tricolore. Da chi ha sostenuto il governo di ieri, maledicendo quello di oggi che è a sua volta naturale conseguenza di quello di ieri.

Mi fa paura perché vedo negli occhi dei miei conterranei - quelli appassionati, accorati, sinceri, onesti e generosi come solo la Sicilia alle volte sa essere - un ardore cieco. Cieco a tal punto, però, da non far altro che privare di mezzi, di strumenti, di movimenti chi, come me e mille altri, vorrebbe che, qui, tutto cambiasse affinché tutto cambiasse.

18.1.12

Serata di scazzo e di tristezza. Di quello scazzo e di quella tristezza a cui non saprai mai dare altro nome, di cui non sarai mai in grado di rintracciare un'origine.
Parole dette durante la giornata? Frasi non pronunciate in serata? Cose non fatte, azioni mancate? Gesti compiuti, ma non quelli che, in fondo in fondo, desideravi e ti aspettavi?
'Misterio eterno dell'esser nostro'.

Allora non mi resta altro che riservarmi l'unico spazio davvero mio, davvero per me; dove non c'è altri che me stesso e chi voglio, chi interpello io e solo io: divano e libro.
Vado, però, per farmi una tisana calda, prendo la tazza dallo scolapiatti. La tazza, giustamente, è stata capovolta - altrimenti come potrebbe adempiersi il compito dello scolapiatti?
Sul fondo concavo della tazza rovesciata, altrettanto legittimamente, è rimasta dell'acqua, dopo il lavaggio.
Acqua che non aspetta altro, evidentemente, che intrufolarsi nelle maniche del mio pigiama. Il quale tutto è fuorché impermeabile. E lì mi abbandonerei ad una blasfema, interminabile, serie di litanie, se non fosse che - oltre al fastidio, imponente, che mi procura ogni volta - la sensazione delle gocce sui polsini e sulle maniche è per me qualcosa di agghiacciante. Non so descrivere bene cosa provo tutte le volte che i miei polsi e i miei avambracci toccano il tessuto impregnato sia pure di quattro gocce d'acqua: un misto di brividi, freddo, senso di viscido e...schifo. Non lo so, ma è una cosa che mi porto dietro da tantissimi anni.
Deformazioni 'professionali' mi porterebbero ad associare freudianamente il fattaccio ai ricordi delle volte in cui mia mamma svoltava e risvoltava fino ai gomiti le maniche di me bambino, e mi sgridava invece quando non lo facevo autonomamente e, dopo aver giocato con l'acqua, mi ritrovavo zuppo fino al collo, paventando così la terribile influenza profetizzata dalla mamma.

Prendo il panno da cucina, asciugo più che posso polsi e maniche, faccio colare il miele nella tazza, l'infuso nell'acqua arrivata ad ebollizione. Aspetto e non voglio spiegarmi più niente, non ci provo neanche più. Soltanto, non vedo l'ora di avere tra le mani la ceramica calda, in bocca il sapore d'erba, caldo e dolce. Negli occhi, le parole di 'sto Carver.

Con buona pace di Freud, stavolta. E della mia tristezza. E del mio scazzo.