Io me lo ricordo quando ho cominciato a svegliarmi la sera.
Nel senso che, da un certo momento in poi, di sera, dopo un'intera giornata trascorsa quasi nell'indifferenza e nella distrazione più totali, come in perenne dormiveglia - uno strano ma inerme e sonnacchioso fastidio verso tutto e tutti - cominciavo a nutrire una specie di interesse verso il mondo, verso la realtà. E - dico - quel momento lì, quel periodo lì io me lo ricordo.
Erano i tempi delle scuole medie, perciò era anche l'inizio della mia adolescenza.
Un pomeriggio (o forse dopo una serie di pomeriggi), fra le tante cose, scoprii che mi scocciava terribilmente fare i compiti. Mi scocciava.
Ma se non era lunedì mercoledì o venerdì - giorni che mi tenevano a scuola sino alle cinque del pomeriggio e poi, subito dopo, per le vie ripide e strette del quartiere medievale della mia cittadina, che tutto facevano fuorché riportarmi a casa nel minor tempo possibile (e io le sceglievo di proposito) - e se non erano i giorni dedicati al 'cazzeggio artistico' con alcuni dei miei compagni e/o amici, allora c'era poco da fare: niente scuse per non studiare.
Non che non mi piacesse studiare, tutt'altro. Era forse l'idea di studiare e l'idea di studiare a quell'ora, in tempi stabiliti, che non mi andava proprio giù. Che, addirittura, mi faceva venir voglia di piangere. Mi faceva avvertire come un peso assurdo al petto e sulle spalle.
Così ad un certo punto (un pomeriggio? due pomeriggi di seguito? due pomeriggi distanziati? tre, quattro?) cominciai a fare niente, pur di non studiare; pur di non studiare a quell'ora. E il pensiero che ci fosse questa massa di libri da leggere, di quaderni da scrivere, nozioni e concetti da capire e apprendere che aspettava solo me e che si raccoglieva soltanto per me, lì, in quell'angolo, paziente e rispettosa dei miei tempi, questo pensiero mi esaltava, mi mandava in una lucidissima estasi.
Ricordo che poi, dopo cena, l'idea di dovermi mettere alla scrivania e fare tutto ciò che non avevo fatto nel pomeriggio - spazzati via più o meno subito tutti i sensi di colpa del caso - mi infondeva un coraggio, un gusto, una passione tali che diluivo il mio lavoro in modo da prolungarlo fino a dopo la mezzanotte, quando in casa non ci sarebbe stato più nessuno tra i piedi. Ero padrone di me, ero presente a me stesso, a quello che volevo.
La cosa più strana (e che forse non capirò mai fino in fondo) è che di tanto in tanto sentivo l'esigenza di alzarmi, camminare, andare in terrazza e guardare fuori, vedere quanta gente (anche e soprattutto nelle case più lontane) fosse ancora sveglia; immaginare chi, tra tanta gente, guardasse la tv, cosa stesse guardando. E ad ogni pausa e ad ogni controllo facevo attenzione, naturalmente, a quante luci intanto si fossero spente, a quali finestre illuminate mancassero adesso alla mia visuale.
E - ricordo - sentivo un legame, una specie di filo invisibile e sottile che univa me a quelli che - a mezzanotte, all'una, alle due - ancora non andavano, neanche loro, a dormire: noi, così pochi...
Persino con le luci delle lampare sul mare, là in fondo. Perché sapevo che lì c'erano vite come la mia; forse con la differenza che loro non sarebbero andati a dormire, di notte.
Io sì...
5 commenti:
Che bel post.
Sì, diventiamo padroni di noi stessi quando prendiamo possesso del nostro tempo. Quando decidiamo noi cosa farne. Anche se si tratta solo di un pomeriggio e null'altro. E poi il fascino della notte, dell'oscurità, del suo silenzio che avvolge, che ci fa, irrimediabilmente, sentire adulti. Condivido.
Un'altra considerazione: solo in età adulta mi sono liberato dai fantasmi che terrorizzavano le mie notti. Ho scoperto che quell'enorme spazio di tempo dominato dall'oscurità aveva una sua capacità di accogliere e non uccideva. Altro tempo da essere vissuto.
Ciao Mel. Grazie delle tue considerazioni, che per certi aspetti hanno completato il quadro :)
hai un po' l'animo ribelle, ....e forse sei anche un po' vampiro? :-)
cyxquibe
Un vampiro ribelle...
;)
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