23.5.11

Balene


Poco c'era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell'incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell'intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell'intangibile malvagità che è stata al principio delle cose [...].È poco probabile che questa monomania cominciasse in lui nel preciso istante della sua mutilazione fisica. Allora, scagliandosi contro il mostro col coltello alla mano, aveva soltanto sfogata un'improvvisa, appassionata animosità corporale, e quando ricevette il colpo che lo stroncò, egli sentì probabilmente soltanto l'atroce lacerazione fisica, ma nulla più [...]: fu allora che il suo corpo squarciato e la sua anima ferita confusero insieme il loro sangue e gli sconvolsero così la ragione [...].
Se qualunque delle sue vecchie conoscenze di terra avesse soltanto a metà immaginato quel che allora gli covava in petto, come subito le loro anime atterrite e diritte avrebbero strappato la nave a un uomo tanto satanico! Essi si attendevano crociere lucrose, del lucro che si conta in dollari di zecca. Egli era fisso a una temeraria, inflessibile, oltreterrena vendetta.


H. Melville, Moby Dick o la Balena (trad. C. Pavese)







18.5.11

Seppie

So che è un argomento ormai trito e ritrito. So anche che non è nemmeno più un fatto tanto nascosto né taciuto: una volta smosse le acque torbide, lo sporco e il puzzo, il torbido, la melma e la merda saranno ben riconoscibili, alla vista e all'olfatto. Per fortuna.
So che non sono nessuno per fare la morale (ammesso che una morale ci sia, che ci possa essere) e so per certo che non voglio essere io il primo a crearne una: personalmente, vivrei addirittura meglio in un mondo a-morale (e non immorale).
Conosco, poi, tutti i discorsi sull'umanità, sulla condizione dell'essere umano, che è limitato, talvolta sporco, certamente difettoso e tendente all'errore - oltre a viverlo nella mia vita, per anni sono stato infarcito (e mi sono infarcito, devo riconoscerlo) di buoni sentimenti, di buone intenzioni, di comprensione per l'altro etc. Sbagliamo tutti, insomma. Ok, non ci piove.
Ma è qui che casca l'asino. E che io mi incazzo.
Io me ne sono letteralmente scappato da un ambiente - quello cattolico, qualora non si fosse già capito - nel quale sono cresciuto e del quale sono stato nutrito; fino all'ingozzamento, s'intende. Tutto bello, tutto grande, tutto promettente, specie per un ragazzino che già a diciotto anni non vede più niente di bello, di grande e di promettente. Finalmente un po' di pace.
Poi la bomba scoppia, di nuovo. E stavolta riguarda tutti - tutti - gli aspetti della vita. E vai con le morali: e vai con i sensi di colpa, con il perenne senso di errore, con quella maledetta macchia che sembra segnarti indelebilmente, a vita. Tanto era l'amore da cui eri circondato, riscaldato, confortato: 'bombardamento amoroso', mi pare, lo chiama qualche studioso. Studioso di sette (secta, da sequor, 'seguire'; ma anche da seco, 'taglio, recido, escludo').
I discorsi, i tentativi di convincimento (da parte degli altri), i tentativi di mediazione (da parte tua) continuano per un po': ma ad avere la meglio è lo spirito di auto-conservazione, l'impulso all'auto-difesa, alla sopravvivenza. Anche nella merda. Anche tra gli psicofarmaci. Voluntas.
Niente di più sacro e santo, allora.
Il resto: parole, parole.
Non rompetemi il cazzo, grazie: rifiuto l'offerta e vado avanti. Ma questo significa dare un nuovo valore - l'unico possibile - alla propria vita. Io sono io, per voi non è possibile che io stia qui così come sono: (non) è stato un piacere. Non abbiamo stipulato nessun accordo. Siccome rappresento la minoranza. Ok, tolgo il disturbo: me ne vado (del resto, se dobbiamo dirla tutta, non vi ho mai neppure creduto fino in fondo).
Questo significa farsi il culo, rimboccarsi le maniche, prendere il proprio piccone e lavorare sodo. Lavorare e vivere, respirare. Almeno un po', almeno quello che mi è concesso. Significa ripartire da sé, e da nessun altro. Significa essere aperti al mondo, significa essere: semplicemente, essere.

Quando sento, quando leggo di sacerdoti - esseri umani, lo so, lo so benissimo - che abusano di bambini; quando leggo del signor Riccardo Seppia (in arte 'don') e del suo bravo e piccantino scambio di battute telefoniche sul conto di ragazzini (a lui non piacciono quelli troppo stagionati - leggasi sedicenni); quando apprendo che gli unici provvedimenti presi da parte dei suoi capi sono l'interruzione (momentanea) delle sue funzioni sacerdotali e la confessione coram populo della propria vergogna (dei capi rosso e biancovestiti, s'intende); quando penso a tutti i discorsi ascoltati da queste due orecchie, alle cose viste da questi due occhi, agli aut-aut posti e imposti ad un'esistenza che non recava danno - né fisico né morale - a nessuno eccetto che a se stessa; quando penso all'influenza che questa casta/setta/congrega ha sul pensiero di un intero paese (quando non di buona parte della popolazione mondiale): è in questi momenti che provo lo schifo più schifo che un essere umano sia in grado di concepire e griderei al tradimento, griderei alla condanna senza assoluzione, griderei al cappio. Invece grido, e basta.

17.5.11

Mondi

Dov'è il tasto rewind, ché devo riascoltare quelle cose, quelle due paroline?
Ma non ci sono più le radio e i mangianastri, come un tempo...

F. dice che ognuno di noi è un mistero e che non c'è parola o frase o immagine, che sia una, in grado di racchiuderci, capace di spiegarci, che ci possa concludere.
E allora si respira, dopo giorni che sono mesi che sembrano anni che si sta come in apnea.
Epperò un'apnea che ha tutto l'aspetto di essere aria, aria non pura, non limpida, non salubre - ma pur sempre aria. Ci si abitua, così, come ci si assuefà all'aria viziata - e, del resto, mica lo sai se è viziata o meno; mica ti accorgi se a viziarla sei tu o no.
F. chiede sempre se c'è bisogno di aprire un po' la finestra, almeno all'inizio: 'Apriamo? C'è aria viziata?'
Fa lo stesso, io non lo sento - e invece sì, che lo sento.
Si respira: perché ognuno di noi è un mondo insondabile, ognuno di noi è un mistero - non ricordo esattamente quale delle due parole, forse tutt'e due.
E, respirando, ci si accorge dell'apnea e dell'aria viziata; e non bisogna aspettare che F. chieda se è il caso di aprire la finestra, perché già l'hai aperta, l'hai spalancata tu, affinché anche F. possa respirare l'aria che, finalmente, stai respirando tu. Ciascuno di noi è un mondo indefinibile, e non c'è soluzione. Respiro.
L'avrò sentito dire migliaia, milioni di volte: ma quale incantesimo mi avrà fatto stavolta F., per far sì che io ci credessi e mi inebriassi? Quale codice avrà usato adesso per aprire al mio cospetto infiniti mondi (s)conosciuti? Un mondo nei mondi e mondi che contengono - ma anche no - un mondo.

Ecco, a questo punto soltanto un tasto mi servirebbe...
Perché il pericolo è nuovamente, inevitabilmente, dietro l'angolo. Come sempre.





6.5.11

The way I see her





Postilla (o pillola del giorno dopo): "La vita è ciò che si vede negli occhi delle persone; la vita è ciò che esse imparano, ciò di cui mai, dopo averlo appreso, per quanto si sforzino di nasconderlo, cessano di essere consce...di che cosa? Del fatto che la vita è così, pare."
(V. Woolf, Un romanzo non scritto)

3.5.11

Pigiare l'acceleratore e andare, lasciandosi andare.
Io l'ho sempre detto che mi piace guidare, ma spesso me ne dimentico. Poi, però, per forza di cose, bisogna fare strada, tanta strada - quella non manca, mai. Paure.
Così prendo l'auto e vado. Cento chilometri. Tanta strada per capirsi, per guardarsi un po' di più. Senza considerare che tutto inizia già allo svincolo, con un assaggio di paternità tanto cercata al tuo fianco. E per la prima volta - forse - mi gusto un dolce senso di filiale de-responsabilizzazione. Un regalo. Del resto, i regali più belli e apprezzati (perché non vi è prezzo alcuno) sono quelli che meno ti aspetti, si sa.
La strada si restringe, si allarga; si apre su un mare di piombo e un cielo incazzato nero, eppure clemente - fino a un certo punto. Regali, quanti regali. File di auto che si congestionano per scomparire appena oltrepassato il semaforo: cuore, affanni e pensieri che ti si congestionano, per poi scorrere sull'asfalto liscio - fin troppo liscio - insieme al grigionero degli pneumatici.
La pioggia sono lacrime. Il parabrezza, specchio, o forse anima - o quella cosa lì, comunque si chiami.
E il lavoro di oggi è già mezzo anticipato...

"...e dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi,
cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi...
La giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso:
e dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni,
racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni
e canterò soltanto il tempo..."
(F. Guccini, Il tema)


(28.IV.2010)